martedì 31 marzo 2009

Distraggo il tempo e mi innamorerò

Soltanto in parte, perchè i sensi di colpa sono ronzii incessanti nelle orecchie, però io provo a sgomitare per emergere, farmi spazio, vivere.
In questo splendido universo cerco la luce che non ho.
Gli schizzi di inchiostro sulla Mia Stanza sono sempre più sporadici e incerti, e quelli di un tempo sono sbiaditi. La causa principale è la mancanza di mezzi tecnici (sto preparando un pacco all'antrace da spedire, rispettivamente, alla telecom e alla wind) nel primo caso, la non-voglia di scavare nel secondo caso.
E' un momento come tanti, e lo dico certa come sono che potrei ritrovarmi ad affermarlo durante un altro martedì mattina qualunque.
La vita è solo un brutto quarto d'ora composto da momenti felici. Un Wilde lontanamente Schopenahueriano a cui dedico da lontano un applauso. Mi piace questo disfattismo/pessimismo/catatrofismo che altro non è che un realismo saggio e per niente azzardato, e neanche troppo sterile (i momenti felici quantomeno li riconosce e li esalta).
Chiamiamolo gioco, vivere è un gioco. Il gioco di trascorrere il tempo cercando delle attenuanti. Tutto il resto non lo so, ma.

Ma intanto io scrivo perchè se non scrivo mi perdo, e se scrivo mi ritrovo. Così sento addosso, almeno.
E' un momento come tanti, ma forse un po' più ricco. Apprezzo la caparbia con cui sto cercando delle attenuanti del dolore, alternative valide che mi aiutino a resistere. L'assuefazione alle storture un po' mi ha intontita, rischio l'abulìa, e in certi giorni i morsi dell'apatia li sento sul corpo che è una bellezza. Reagisco un po', cavolo, che bisogna darsi un tono! E allora.

E allora un po' il teatro di mercoledì sera, un po' il volo già prenotato per Parigi, un po' i viaggi in vesuviana verso l'università e l'università stessa col suo fragore che confonde, istruisce, apre la mente ed aliena al tempo stesso. Un po' di "altro" che sia lontano da queste quattro mura che sanno di malattia, disperazione e buco nero.
La dignità di non cedere a lamentele insulse è ancora intatta.
La voglia di lamentele insulse la disperdo nei rumori, nel qualunquismo dei discorsi a lezione, nella foga di un palleggio da posto 2 verso posto 4 durante un allenamento, nelle cose stesse che faccio. In tutte le cose che faccio. In ogni sottilissimo gesto banale, in ogni piccolo passo che muovo.
Mi sforzo di vivere, di offrire la pelle al mondo per sentire il brivido. Ce la metto tutta. Ce la metto tutta contro i silenzi lividi, i rancori nitidi, la compassione sterile, l'impotenza sempre inenarrabile.
Mi incazzo a teatro vedendo Gomorra, ma non mi impietrisco.
Il cuore si spezza in oltre mille cocci, fran!, mentre papà si mette le mani in faccia, che è già quasi un anno e non passa mai, ma non mi frantumo.
Poi le mails clericali e bigotte e insulse che ricevo, che Dio li perdoni (Dobellini e il Papa), sull'uso del preservativo in Uganda che sarebbe soltanto un "problema", un'aberrazione. Ma non mi isterilisco. Mi scopro cristiana dissacrante, mi scopro regina dei sensi unici contromano, rifletto.
Cerco di coltivare la negatività, mi lascio attanagliare da tutto il male che posso fino all'esaustività, fino alla necessarietà di respingere e vomitare e fertilizzare il terreno e renderlo vitale e prolifico.

Ecco che nasce l'opportunità dal disastro. Lo sforzo di non soccombere al flusso, stare sopra, cavalcare l'onda.
Lo sforzo di essere migliore.


Sposto le nuvole

Tolgo le virgole
Cambio le regole così
Dove c’è ruggine
Stanchezza o malessere
Nessun problema
Sono qui!
Scelgo il coraggio
Che vi piaccia oppure no
Ovunque c’è amore
C’è speranza!
Breve o infinita vita sei così
Di questa smania morirò ma sì
D’aria e di musica
Perché ogni giorno sia domenica
Sono colpevole
Di non resistere
A quest’idea di libertà
Oltre le lacrime
Trovarsi è possibile
Convinciti anche tu
A stare con gli ultimi
Si è più vulnerabili
Ma ci si aiuta un po’ di più
Non voglio credere che sia tutta una follia
Esisterà una via di fuga
Distraggo il tempo e mi innamorerò
Finché all’inferno poi non brucerò
D’aria e di musica
La mia stagione è platonica
Siamo colpevoli
Troppo sensibili
A quest’idea di libertà
Io che tradisco la metrica
Io vado oltre ogni logica
Esulta l’anima
Quando ogni giorno è domenica
Prendo e volo incontro al cielo
Di questa gravità
Mi libero
Viaggia solo il mio pensiero
Lui che si nutrirà
D’aria e di musica!
Mi ritrovo
Come nuovo
Se di semplicità io m’illumino
Io Volo Volo Volo
Io M’illumino
Io volo
D’aria e di musica Respiro

[D'aria e di musica - Renato Zero]

lunedì 23 marzo 2009

I miei vent'anni (dall'aula multimediale dell'università)

Non ci sono la calma e l'intimità indispensabili, attorno a me, per solcare questa pagina virtuale nel profondo.
Nell'attesa che la wind si decida a concedermi la connessione adsl sul mio computer, mi limito a pubblicare (a scrocco) il testo di una canzone che, diciamo, è un omaggio a un mio "amico", a me e ai miei vent'anni.
Sicuramente non ai vent'anni di queste vrenzolelle sedute vicino a me.



I tuoi vent'anni

Son come stelle
Splendono negli occhi tuoi
Quando mi guardi
I tuoi vent'anni
Son come fiori
Sbocciano sulle tue labbra
Quando mi parli
Stringi forte le dita
Sui tuoi vent'anni
Domani finirà
Anche il tuo carnevale
I tuoi vent'anni
Son le mie pene
Quando tu ridi e non vuoi
Donarmi un bacio
I tuoi vent'anni
I tuoi vent'anni
Perchè tu non vuoi
Regalarli a me?
I tuoi vent'anni

[I tuoi vent'anni - Sergio Endrigo]


martedì 10 marzo 2009

L'eleganza del riccio

Quest’esistenza già fragile è scandita da troppi scossoni chè ogni volta dico basta, non reggo pure quest’altro colpo.
Piccole crepe, piccole e -apparentemente- invisibili crepe.
In sottofondo “Lady Marmalade” a smaltire il peso di queste riflessioni sempre troppo poco leggere, in fondo bisogna provare a restare a galla. Per quanto mi riguarda sono arrivata ad una conclusione: non ne ho voglia, non ce la faccio.
Ma il cazzo di guaio è che io non sono Paloma *.

Comunque, a parte il pensiero profondo (che poi è rimasto inespresso), ne ho abbastanza di questo posto di merda. Non voglio fare la bacchettona, per carità.

Però mi brucia che quattro mocciosi dietro di me, alla fermata del pullman, in attesa dell’R2 vicino la galleria Umberto, comincino a prendersi lo spazio che non gli è dato. Apprezzamenti, DISprezzamenti. E vabbè, faccio finta di non sentire. Ma le mani sullo zaino per aprire la cerniera o i colpetti sulle spalle, no. State oltrepassando IL limite. E la cosa che mi istiga maggiormente alla nevrastenia, poi, è che per farsi rispettare bisogna essere più capuzzielli di loro che fanno i capuzzielli. Così, se taci rimani oggetto di scherno; ma se ti volti quando il tuo viso ha già assunto le sembianze di quello dell’incredibile Hulk incazzato, e gridi “MA CHI TA Rà A CAZZ RA CUNFERENZ?!” nel tuo dialetto più verace e nel tuo tono più serio allora smettono, anzi indietreggiano impauriti.
Bisogna essere più marci di loro, insomma.
E poi, questo continuo dover condividersi con gente che fa cadere le braccia e, tipo cheneso, butta le carte della barretta di cioccolato a terra, nel pullman. Gente che va all’università, per intenderci. E devi pure sopportare di restare in silenzio quando dice “che palle, io odio leggere”. Lo so, non siamo tutti uguali. E io non sono Pico De Paperis, e in realtà non sono né la carta buttata a terra né l’odio per la lettura, il problema reale. Non l’unico, perlomeno. Però non ce la faccio, mi sento ancora e sempre troppo distante.
E il problema è oltre. Il problema è dover constatare questa solitudine e dover farci i conti.SOLA. Io mi sento sempre e comunque sola. LONTANA.

…e poi, a tutti quei tarzanielli, chi cazzo glielo spiega che si dice PùLLMAN e non PULLMàN?


Sogni le stelle

nella boccia dei pesci
rossi finisci


“La gente crede di inseguire le stelle e finisce come un pesce rosso in una boccia. Mi chiedo se non sarebbe più semplice insegnare fin da subito ai bambini che la vita è assurda. Questo toglierebbe all’infanzia alcuni momenti felici, ma farebbe guadagnare un bel po’ di tempo all’adulto –senza contare che si eviterebbe almeno un trauma, quello della boccia.
...a quanto pare nessuno ha pensato che, se l’esistenza è assurda, una brillante riuscita non vale più di un fallimento. E’ solo più piacevole. Anzi, nemmeno: credo che essere coscienti renda il successo amaro, mentre la mediocrità spera sempre in qualche cosa.E così ho preso una decisione. Presto lascerò l’infanzia e, nonostante sia certa che la vita è una farsa, non credo di poter resistere fino alla fine. In fondo siamo programmati per credere a ciò che non esiste, perché siamo esseri viventi e non vogliamo soffrire. Allora cerchiamo con tutte le forze di convincerci che esistono cose per cui vale la pena vivere e che per questo la vita ha un senso. Pur essendo molto intelligente, non so quanto tempo ancora potrò lottare contro questa tendenza biologica.”

[tratto da L’eleganza del riccio]


Paloma* è una delle due protagoniste di questo libro che, lo dico con sicurezza, aggiungo alla lista dei miei libri preferiti.

giovedì 5 marzo 2009

La bella utopia [scomoda-mente]

Solo per te convinco le stelle
a disegnare nel cielo infinito qualcosa che somigli a te
Solo per te io cambierò pelle
per non sentir le stagioni passare senza di te


[Solo per te – Negramaro]


Poi dicono no, ma sti Negramaro sono commerciali.
Vabbè, sono trascorsi i cinque minuti riservati alla contemplazione notturna del bello.
Le giornate si allungano e sono sempre più brevi e non c'è tempo e non c'è spazio (e non c'entra niente Tiziano Ferro!), basta contemplare!, basta desiderare da seduti!, non c'è tempo e bisogna produrre. Non si sa bene cosa ma produrre. Far ingranare questo meccanismo lento e annoiato che siamo, che è il nostro nucleo.

Mi aggiusto le cuffiette, premo repeat e intanto vado avanti, che in questa notte di raffreddoremaldigolamald'orecchio e aria malinconica che taglia mentre tira in faccia, non ci si può fermare.
Oggi ho cominciato col teatro, finalmente. L'abbonamento è una gran cosa, e yuppi yeah che bella cosa essere under 25, e yuppi yeah che bello il mercoledì senza pallavolare e yuppi yeah!
Certo, avrei preferito un inizio meno azzardato, chè varcare la porta del San Ferdinando e sedersi di fronte a Moni Ovadia e “La Bella Utopia” non è stato poi così agevole.
L’insediamento del capitalismo e la sconfitta del comunismo, la rivoluzione bolscevica del ‘17 e la deportazione degli ebrei nel Birobigian e Stalin, che noinonlosappiamo, ma lui sì che era un dittatore, e la rivoluzione d'Ottobre che doveva essere rivoluzione e invece questo mondo occidentale di merda che appoggia la contro-rivoluzione e trasforma la rivoluzione in oppressione cruenta.
Ed io nella mia poltrona che mi sento meno che piccola piccola piccola. E Licia accanto a me, che, non troppo a torto, mi sussurra “Bobbe, mammamì, non ce la faccio più!” e intanto la Moni Ovadia stage Orchestra suona la Balalaica, mentre al pubblico elitario e sempliciotto viene da battere le mani a tempo perché fa tanto festa di paese, ma il pubblico è elitario e non le batte le mani a tempo, e sopra ogni cosa QUELLA NON è UNA FESTA DI PAESE. Battere le mani a tempo fa così bello, e non dà adito di realizzare quanti sono morti per un ideale. Uno a caso, cheneso, l’uguaglianza.
Dico, o ci vai riposato e con gli occhi aperti, o rimani a casa. Del resto servono occhi bene aperti per guardare tutto quello che, occidentali quant’è vero che siamo occidentali, mai abbiamo voluto vedere. Abbiamo voluto la contro-rivoluzione, chè l’uguaglianza se ci fa essere troppo uguali e quindi “meno”, noi non la vogliamo.
Non sto a spiegare né a predicare, nel primo caso perché non sono in grado e nel secondo perché non sono un prete.

L’arte straripava sul palco ma solo illusoriamente. Come le cose preziose che si disperdono e si allontanano, ma in realtà stanno solo fingendo: alla fine torneranno indietro e non si lasceranno toccare. Nemmeno sfiorare.
Però c’è una parola che estrapolo da questo pomeriggio napoletano pazzo e teatrale, in una vesuviana dolcemente silenziosa e pacifica e un cielo sorprendentemente clemente che ha atteso che io fossi al sicuro, prima di incazzarsi di brutto.
Dittatura.
Quanti tipi di dittatura conosciamo?
Mi piacerebbe spararmi la posa e cominciare a parlare dell’antica Grecia, chè sono sicura che se madama Cimmino mi leggesse rimpiangerebbe il male che mi ha procurato ai tempi del liceo! Comunque, non è questo il punto. Cioè, è SOPRATTUTTO questo, certo. Però io non dico Hitler e non dico Stalin: teoricamente lo sappiamo tutti. Io dico noistessi.
La dittatura di noi stessi per noi che siamo dittatori. O la dittatura degli altri su di noi.

La dittatura del pensiero.
Che Diocenescansi (ti chiamo in causa solo per gli artifici retorici di questa minchia, c’hai ragione), in fondo noi siamo così democraticamente democratici!Eppure, eppure.
Io la conosco, la dittatura del pensiero.
Per via indiretta, diretta e direttissima.
La repressione da parte degli altri, l’autorepressione e l’abnegazione.
Aberranti, tutte. In tutti i casi. Sempre. Sotto qualsiasi forma. Per qualsiasi motivo. Da aborrire a favore di qualsiasi plausibile o plausibilissima (e relativissima) coerenza.
Ad esempio, se c’è una storia che non tollero, tra le tante che mi racconta la psicoroba cognitiva, è quella del tale che per autoaffermarsi deve pestarti il piede. Sta a te sottrarti, che tanto, astuto come sei, il piede lo togli. Però se lui ha bisogno di pestarti il piede per mantenere questa sua pseudocoerenza, inutile che ci piangi. Cioè, togli il piede e amen.
Per me va bene, ci ho voluto e ci voglio ancora credere.
Ma adesso poniamo il caso inverso.
C’è il tale che per mantenere la sua coerenza deve fucilarti. E tu non puoi sottrarti perché in quel gulag ti ci hanno mandato apposta. E tu non puoi scappare perché sei con le spalle al muro. E allora…ti lasci sparare?! Cioè, non vuoi, noi lo sappiamo che tu non vuoi. Ma sappiamo pure che volente o nolente prima o poi accadrà e bang!, giù la tua carcassa e poi altri due milioni come te, magari tre, magari quindici milioni. Per l’ego di uno.
Mo’, per carità, mica voglio paragonare lo sterminio degli ebrei ad una “pestata di piedi”?
Però mi chiedo quanta differenza vi sia realmente tra le due cose e, più precisamente, qual è il confine tra questi due estremi, qual è il modo per evitare che da un piede pestato si arrivi ad un uomo fucilato.
Emily Dickinson, la mia Emily, ha scritto che le parole da sole hanno un valore spropositato.
Ed è vero…una guerra non comincia forse per un piede pestato?
Tutto questo inchiostro buttato vi sembra metafisico e sconclusionato e a me dispiace, però a volte una pizza mangiata assieme alle persone sbagliate esfolia la testa in questo modo così superbo...che poi vallo a capire che cosa succede!
E comunque non me ne frega dell’inchiostro sprecato, perché tanto è virtuale.

domenica 1 marzo 2009

Sulo pe parlà


In attesa che arrivino computer nuovo e adsl scrocco dal catorcio di mio fratello.
Necessità impellente di dire un po' di cose, sconnesse ma concise.
Anzitutto devo appuntare la commozione (venerdì mattina nella mischia del corteo, tutti arrampicati ad una solidarietà tangibilissima).
In secondo luogo l'amarezza (ci siamo giocate il primo posto in classifica, arriva una sconfitta proprio nel giorno in cui non avrebbe dovuto e mi sento le spalle cariche di responsabilità: provo ad esorcizzare il peso delle conseguenze, ma sembra troppo).
E infine la malinconia, chè non si sa mai perchè precisamente, chè marzo è appena cominciato e già il cielo è cinereo, ma questo senso di sconfitta non sa scivolare via con la pioggia.