Solo per te convinco le stelle
a disegnare nel cielo infinito qualcosa che somigli a te
Solo per te io cambierò pelle
per non sentir le stagioni passare senza di te
[Solo per te – Negramaro]
Poi dicono no, ma sti Negramaro sono commerciali.
Vabbè, sono trascorsi i cinque minuti riservati alla contemplazione notturna del bello.
Le giornate si allungano e sono sempre più brevi e non c'è tempo e non c'è spazio (e non c'entra niente Tiziano Ferro!), basta contemplare!, basta desiderare da seduti!, non c'è tempo e bisogna produrre. Non si sa bene cosa ma produrre. Far ingranare questo meccanismo lento e annoiato che siamo, che è il nostro nucleo.
Mi aggiusto le cuffiette, premo repeat e intanto vado avanti, che in questa notte di raffreddoremaldigolamald'orecchio e aria malinconica che taglia mentre tira in faccia, non ci si può fermare.
Oggi ho cominciato col teatro, finalmente. L'abbonamento è una gran cosa, e yuppi yeah che bella cosa essere under 25, e yuppi yeah che bello il mercoledì senza pallavolare e yuppi yeah!
Certo, avrei preferito un inizio meno azzardato, chè varcare la porta del San Ferdinando e sedersi di fronte a Moni Ovadia e “La Bella Utopia” non è stato poi così agevole.
L’insediamento del capitalismo e la sconfitta del comunismo, la rivoluzione bolscevica del ‘17 e la deportazione degli ebrei nel Birobigian e Stalin, che noinonlosappiamo, ma lui sì che era un dittatore, e la rivoluzione d'Ottobre che doveva essere rivoluzione e invece questo mondo occidentale di merda che appoggia la contro-rivoluzione e trasforma la rivoluzione in oppressione cruenta.
Ed io nella mia poltrona che mi sento meno che piccola piccola piccola. E Licia accanto a me, che, non troppo a torto, mi sussurra “Bobbe, mammamì, non ce la faccio più!” e intanto la Moni Ovadia stage Orchestra suona la Balalaica, mentre al pubblico elitario e sempliciotto viene da battere le mani a tempo perché fa tanto festa di paese, ma il pubblico è elitario e non le batte le mani a tempo, e sopra ogni cosa QUELLA NON è UNA FESTA DI PAESE. Battere le mani a tempo fa così bello, e non dà adito di realizzare quanti sono morti per un ideale. Uno a caso, cheneso, l’uguaglianza.
Dico, o ci vai riposato e con gli occhi aperti, o rimani a casa. Del resto servono occhi bene aperti per guardare tutto quello che, occidentali quant’è vero che siamo occidentali, mai abbiamo voluto vedere. Abbiamo voluto la contro-rivoluzione, chè l’uguaglianza se ci fa essere troppo uguali e quindi “meno”, noi non la vogliamo.
Non sto a spiegare né a predicare, nel primo caso perché non sono in grado e nel secondo perché non sono un prete.
L’arte straripava sul palco ma solo illusoriamente. Come le cose preziose che si disperdono e si allontanano, ma in realtà stanno solo fingendo: alla fine torneranno indietro e non si lasceranno toccare. Nemmeno sfiorare.
Però c’è una parola che estrapolo da questo pomeriggio napoletano pazzo e teatrale, in una vesuviana dolcemente silenziosa e pacifica e un cielo sorprendentemente clemente che ha atteso che io fossi al sicuro, prima di incazzarsi di brutto.
Dittatura.
Quanti tipi di dittatura conosciamo?
Mi piacerebbe spararmi la posa e cominciare a parlare dell’antica Grecia, chè sono sicura che se madama Cimmino mi leggesse rimpiangerebbe il male che mi ha procurato ai tempi del liceo! Comunque, non è questo il punto. Cioè, è SOPRATTUTTO questo, certo. Però io non dico Hitler e non dico Stalin: teoricamente lo sappiamo tutti. Io dico noistessi.
La dittatura di noi stessi per noi che siamo dittatori. O la dittatura degli altri su di noi.
La dittatura del pensiero.
Che Diocenescansi (ti chiamo in causa solo per gli artifici retorici di questa minchia, c’hai ragione), in fondo noi siamo così democraticamente democratici!Eppure, eppure.
Io la conosco, la dittatura del pensiero.
Per via indiretta, diretta e direttissima.
La repressione da parte degli altri, l’autorepressione e l’abnegazione.
Aberranti, tutte. In tutti i casi. Sempre. Sotto qualsiasi forma. Per qualsiasi motivo. Da aborrire a favore di qualsiasi plausibile o plausibilissima (e relativissima) coerenza.
Ad esempio, se c’è una storia che non tollero, tra le tante che mi racconta la psicoroba cognitiva, è quella del tale che per autoaffermarsi deve pestarti il piede. Sta a te sottrarti, che tanto, astuto come sei, il piede lo togli. Però se lui ha bisogno di pestarti il piede per mantenere questa sua pseudocoerenza, inutile che ci piangi. Cioè, togli il piede e amen.
Per me va bene, ci ho voluto e ci voglio ancora credere.
Ma adesso poniamo il caso inverso.
C’è il tale che per mantenere la sua coerenza deve fucilarti. E tu non puoi sottrarti perché in quel gulag ti ci hanno mandato apposta. E tu non puoi scappare perché sei con le spalle al muro. E allora…ti lasci sparare?! Cioè, non vuoi, noi lo sappiamo che tu non vuoi. Ma sappiamo pure che volente o nolente prima o poi accadrà e bang!, giù la tua carcassa e poi altri due milioni come te, magari tre, magari quindici milioni. Per l’ego di uno.
Mo’, per carità, mica voglio paragonare lo sterminio degli ebrei ad una “pestata di piedi”?
Però mi chiedo quanta differenza vi sia realmente tra le due cose e, più precisamente, qual è il confine tra questi due estremi, qual è il modo per evitare che da un piede pestato si arrivi ad un uomo fucilato.
Emily Dickinson, la mia Emily, ha scritto che le parole da sole hanno un valore spropositato.
Ed è vero…una guerra non comincia forse per un piede pestato?
Tutto questo inchiostro buttato vi sembra metafisico e sconclusionato e a me dispiace, però a volte una pizza mangiata assieme alle persone sbagliate esfolia la testa in questo modo così superbo...che poi vallo a capire che cosa succede!
E comunque non me ne frega dell’inchiostro sprecato, perché tanto è virtuale.
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