giovedì 25 giugno 2009

Quella promessa nelle vie di Teheran



Nelle strade di Teheran si misurano adesso quello che c' è di più minaccioso e quello che c' è di più promettente per il destino del nostro mondo. La minaccia ha la divisa nera dei picchiatori e degli sfregiatori arruolati a milioni dal delirio khomeinista. La promessa ha un viso scoperto di ragazza. Avederla così, è facile dire chi è più forte. Ma la questione della forza è complicata. Abbiamo visto ieri la giovane Neda morire sull' asfalto, jeans e sneakers, il bel viso che si riempiva di sangue, il padre che le ripeteva «Non aver paura», prima di gridare di disperazione. Avevamo letto alla vigilia la lettera di un' altra giovane donna: «Prenderò parte alle dimostrazioni domani. Può darsi che si facciano violente. Può darsi che mi succeda di essere fra quelli che verranno ammazzati. Sto ascoltando la musica che amo, anzi voglio mettermi a ballare con qualche canzone. Ho le sopracciglia sottili: può darsi che passi da un salone di bellezza domani, prima... Devo chiamare gli amici e salutare. Tutto quello che possiedo sono due scaffali di libri, ho detto ai miei a chi devono andare... Scrivo questo appunto per i bambini di domani». Ieri l' autrice ha scritto un suo nuovo messaggio, dedicato a Neda, "sorella": «che era una persona dignitosa, e aspettava come me un giorno in cui i suoi capelli venissero scompigliati dal vento...». Dunque è complicata, delicata, la questione della forza. Conobbi l' Iran trent' anni fa, c' era una rivoluzione, c' era una guerra. Poiché la gran maggioranza degli iraniani sono nati dopo di allora - notizia impressionante, a guardarla con gli occhi del nostro occidente- quella conoscenza ormai mi serve a poco. Ma già allora, nella rivoluzione che cacciò lo Scià e il suo pacchiano impero e la sua Savak, erano gli uni accanto alle altre, nelle strade traboccanti, gli uomini fanatici dalle barbe accuratamente incolte e le ragazze libere e intrepide. E cominciarono fin da allora a separarsi e opporsi. Una rivoluzione giovane e sostanzialmente incruenta andò a estrarre da un sobborgo parigino e dal suo tappeto di preghiera un vegliardo senza tempo e gli consegnò un' onnipotenza capricciosa. Nel culto della sua ieratica crudeltà gli uomini accuratamente mal in arnese braccavano le ragazze libere dal viso scoperto, le assalivano a bastonate, oppure strappavano loro di dosso il chador per smascherarne il rossetto o una lacca sulle unghie. Sono trascorsi trent' anni. Sempre nuove ragazze si sono riguadagnate millimetro per millimetro la loro cospirazione per la libertà, un fazzoletto spostato indietro sulla fronte, una ciocca di capelli sbucata come per distrazione da una tempia, una festa domestica senza la tetra mascheratura, come in una effimera terra di nessuno. Hanno pagato carissimo. Ora siamo a questo punto. Dio è grande, gridano gli uni e gli altri, le une e le altre. Eppure mai una separazione è stata così netta, mai è stato così chiaro da che parte stare. Di un Dio che bastona e stupra e lapida, o di un Dio che sorrida del vento tra i capelli delle ragazze. Il vento tra i capelli non è sentimento contro cautela, poesia contro realismo politico. Il realismo politico stringe la presa dei bastoni nelle mani dei picchiatori, e della bomba atomica nell' arsenale dei loro capi. Facciamo affari d' oro, con loro. Ma il conto non tarderà più ad arrivare. Il realismo politico, o almeno quella sua esuberante versione che vuole dissimulare complicità e viltà, si barcamena con l' incertezza sul risultato elettorale. Chi può dire che Ahmadinejad non sia davvero il vincitore? Infatti. Nessuno può dirlo: ma dicono alto il contrario, e al prezzo della vita, i manifestanti di Teheran e di altre città. Ahmadinejad, e quell' invasato Khamenei che ha legato indissolubilmente a lui i propri destini, hanno certo un seguito enorme, come provò la sorpresa delle elezioni scorse, quando a cedergli fu il troppo navigato e troppo corrotto Rafsanjani. Ahmadinejad si procura i propri devoti nei due modi tradizionali con cui si seduce una plebe,e mai è stata esorbitante come oggi un' offerta plebea: affamandola, e aizzandola contro dei presunti colpevoli. I milioni di "volontari" mobilitati in permanenza cui si prodigano grandiosità come la bomba, la distruzione di Israele e il martirio, sono forse ancora sufficienti a far vincere un' elezione normalmente truccata. Mi sembra probabile che non sia andata così, e che la contraffazione dell' esito elettorale abbia ecceduto questa volta ogni precedente. Gli argomenti dell' opposizione sono impressionanti: circoscrizioni in cui la quota dei votanti supera di molto il cento per cento (!), seggi in cui i membri dell' opposizione sono stati estromessi dallo scrutinio, plateali trucchi contabili come l' aggiunta di una cifra a quella che contrassegnava Moussavi, così da trasformarla nel voto ad Ahmadinejad - ciò che oltretutto renderebbe derisorio lo stesso riconteggio... Ma quando anche Ahmadinejad avesse davvero prevalso, che cosa vorrebbe dire di fronte alla insurrezione dei giovani iraniani? Che cosa c' è di democratico in un regime come quello della vilayat-ei-faqih sciita? Il punto in Iran è questo: che, sotto il fatuo e superstizioso potere assoluto della "Guida Suprema", maggioranza o minoranza che sia, il regime di Ahmadinejad vuole decidere brutalmente dei capelli delle ragazze, cioè della vita e della libertà di tutti gli iraniani. Mentre i giovani che a rischio della vita riempiono le strade di Teheran e hanno trovato un provvisorio riferimento nel candidato Moussavi non impedirebberoa nessuno e nessuna di disporre del proprio abbigliamento e della propria libertà. Questa è la partita democratica che riguarda l' Iran, e non consente più al mondo che ha la fortuna della democrazia, una volta che in quel grande paese Neda e le altre abbiano fatto il loro passo, di barcamenarsi, se non rinnegando il proprio vanto e il proprio privilegio. Privilegio enorme è infatti quello di scegliere che uso fare del vento fra i capelli a Teheran e Kabul, e a Bari e Casoria e in ogni luogo del pianeta. Quanto al vanto, è tutto un altro affare. - ADRIANO SOFRI


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