lunedì 13 ottobre 2008

Gli effetti secondari dei sogni

Per fortuna ci sono gli scrittori con i loro libri e i cantanti con le loro canzoni che dicono tutto per me. Dicono per me tutto quello che, altrimenti, rimarrebbe eternamente inespresso.



Vi ho detto,
guardavo il mare,
ero nascosta fra le rocce
e guardavo il mare.

[Le Clézio – Lullaby]



Da quando sono nata, mi sono sempre sentita al di fuori, dovunque fossi, fuori dall’immagine, dalla conversazione, sfasata, come se fossi la sola a sentire rumori o parole che gli altri non percepiscono, e sorda alle parole che invece sembrano sentire, come se fossi fuori dalla cornice, dall’altra parte di una vetrata immensa e invisibile.
E’ capitato anche oggi pomeriggio a Volla, mentre con Erasmo e gli altri cercavamo di mettere insieme le parole giuste per far capire a chi ancora non lo sa che stiamo muovendo verso una rotta sbagliata, poichè tagli e istruzione non fanno rima, come non fanno rima maestro unico e formazione, come non può fare rima privatizzazione con università.
Io ero là, seduta in mezzo agli altri, con tutta la preoccupazione che mi circolava nel sangue. Perché il futuro è incerto e se lo dico mi vengono i brividi, e perché la felicità è solo un istante e compagnia bella.
C’ero e con me c’era la solita consapevolezza di non essere poi così vicina, così in mezzo, così dentro. Me la porto sempre addosso, mi muovo e vedo che non c’è niente da fare, sarò sempre così, non ci sono rimedi né antidoti. Più li guardo, gli altri, più vorrei essere come loro. Invidio la loro spensieratezza, le loro risate che non sono fanfarone come le mie che voglio stare al centro come se potessi dimenticare, stando al centro. Invidio tutte le loro storie, e se se le inventano allora tanto di cappello: sono sicura che possiedono qualcosa che io non ho.
A lungo ho cercato nel vocabolario una parola che esprimesse la facilità, la spensieratezza, la fiducia e tutto quanto, una parola che incollerei sul mio moleskine a caratteri cubitali, come un incantesimo. Ma non la trovo. E se ci sono vicina, capita che è il momento di tornare a casa. E tornare a casa mi basta per provare che un po’ di cabaret non basta a sentirsi vivi, pieni e non più soli. Non può bastare mai. Come se fossi l’attrice di una sequenza di scene che si sussegue drammaticamente. Ed è così, c’è drammaticità in ogni mio anno scomposto dai restanti altri, così che arrivano insieme a venti solamente per un’addizione. E non si può parlare in termini matematici di quello che manca: vent’anni non sono pochi, credetemi.
Il fatto di esprimere la quantità mediante un numero non è di per sé così evidente. La quantità dell’assenza, soprattutto. L’assenza di un oggetto o di un soggetto si esprime meglio con la frase “non c’è” (o “non c’è più”). Papà non c’è, ad esempio.
I numeri rimangono un’astrazione e non suggeriscono né l’assenza né il dolore.
Parlo così per provare a rendere l’idea, non vi sono richieste indirette di colmareperpiacereimieivuoti. Non voglio niente, alla fine, né mai ho voluto qualcosa per capriccio. Volevo che nulla ci distinguesse dalle altre famiglie, dove i genitori pronunciano più di quattro parole al giorno e i bambini non passano il tempo a farsi brutte domande.
La vita non è come un angelo che si alza e danza sulla punta dei piedi.
Non si scacciano le immagini, e ancora meno le crepe invisibili che si aprono in fondo alle viscere, non si scacciano le risonanze né i ricordi che si risvegliano quando scende la notte o spunta l’alba, non si scaccia l’eco delle grida, e ancora meno quello del silenzio. Non si scacciano nemmeno le frasi che non riesco a dire e che rimangono impresse in testa. Le parole sfuggono, disertano, si dileguano. Non è un problema di vocabolario né di definizioni perché di parole ne conosco parecchie, ma quando mi servono succede che si confondono, si disperdono. Chi lo sa, magari se riuscissi a renderle simultanee e direttamente consecutive ai pensieri potrei risolvermi. E’ per questo che credo che non riuscirò a risolvermi mai. Vedo tutto quello che mi passa per la testa però non mi fido mai. E’ ovvio che sono i miei pensieri e mi compongono. Ma mi riesce più facile vedere cosa passa per la testa della gente: è come una caccia al tesoro, un filo rosso che basta far scivolare fra le dita, fragile, un filo che conduce alla verità del mondo, che però non sarà mai rivelata.
A volte mi faccio paura, perché so che non bisogna giocare a questo gioco, bisogna saper abbassare gli occhi per conservare lo sguardo di bambino. Ma io gli occhi non riesco a chiuderli, restano spalancati. E qualche volta me li copro per non vedere. Non bisogna guardare troppo e troppo a fondo, perché è guardando che si capisce. E sarebbe meglio non capire, a volte.
Per fortuna la vita non è solamente una serie infinita di pensieri e parole che si alternano vorticosamente. Cioè, la mia vita è principalmente questo, però esistono i contesti reali, concreti, che hanno il compito di distoglierci dal mondo che c’abbiamo in testa. E’ per non alienarci. Tant’è che senza pensarci noi possiamo pure cambiare espressione del viso, e addirittura più volte in un solo secondo.
C’è la pallavolo, c’è “Il pettirosso”, c’è la Comunità che non sa tornare mai completamente, c’è l’università, ci sono i libri e i film e le canzoni, ci sono i miei amici. C’è una vita che viene in mio aiuto e mi dice che posso esserci, che io voglia crederci o meno. Ed io a volte ci credo, a volte no.
Troppa concretezza che manca, spesso. Mi innamoro, e mi innamoro del vento che vedo andar via.
Chi sono, cosa sono, di che materiale sono fatta?
Sono riducibile ad un insieme di parole che si traduce in un silenzio strangolante. So amare, ma non troppo bene. Mi riesce di dirlo solo a bassa voce. Così mi risolvo in un diario scritto, dove le parole cancellano ogni mio sogno a tempo debito.Ciò che non riesco a vivere, lo riesco a scrivere. E la vita o la si vive o la si scrive, diceva Pirandello. Quando la si scrive un po’ ci si relega agli angoli del mondo che si sviluppa nella propria testa. Ed è un mondo di solitudine, che non la puoi guardare, ma la puoi sentire e sai che non se ne andrà sopra le nuvole.
Non è roba mia questa, lo so, ma se ammettiamo che per due punti passa una e una sola retta, un giorno traccerò quella che va da te verso di me o da me verso di te.


Aiutami a non piangere, adesso siamo soli. La rabbia ormai è cenere, mio eterno dittatore. Stai qui, stai qui e dammi il buon esempio, non devi far vedere al cielo che hai paura. Babbo non l’avevi detto che finiva tutto e mi lasciavi qui. Babbo dammi ancora addosso, la vita è un gioco rotto se non ci sei più. Stai giù, stai giù, fermiamo questo tempo, ed io con la forza che ho di te non ti abbandono. Babbo non l’avevi detto che finiva tutto e mi lasciavi qui. Babbo stammi ancora addosso, la vita mi fa freddo se non mi copri più. E vai via dalle mani babbino caro, accendo il sole per te e non ti perderò. E la vita non è come un angelo che si alza e danza sulla punta dei piedi, e la vita che hai e che vedi andar via io vorrei ridartela come se fosse mia. Babbo non l’avevi detto che finiva tutto e mi lasciavi qui. Babbo stammi ancora addosso, la vita mi fa freddo se non mi copri più. E vai via dalle mani babbino caro, accendo il sole per te e non ti perderò.

[Babbino caro- Gianna Nannini]

1 commento:

SerialLicker ha detto...

o la sai vivere, o la sai scrivere

il fatto è che tu la scrivi così bene, che la vivo pure io, la tua vita. Come se la tua angoscia, la tua paura, il tuo dubbio fosse qualcosa di concreto che mi bussa sulla spalla e mi fa salire i brividi, perchè non me lo aspettavo...

un bacio Poppe'... che non scrivo ma almeno sono tornato a leggere